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domenica 5 ottobre 2014

Diciamo(lo) a Calvino, anzi non diciamolo

     Pochi ricordano che nel 1984 Italo Calvino fu invitato dalla Harvard University di Cambridge, nel Massachusetts, a tenere un ciclo di sei conferenze a tema libero che presero il nome di Lezioni americane. Scelse di illustrare alcuni valori della letteratura che riteneva di dover salvare: leggerezza, rapidità, esattezza, visibilità, molteplicità e consistenza o coerenza. Li chiamò Six memos for the next millennium (Sei buoni propositi per il prossimo millennio). L’autore sosteneva che la padronanza della propria lingua ricoprisse un profondo valore morale e sociale, essendo essa l’unica arma capace di contrastare la perdita di forma che ha infettato il mondo, rendendo insensata e amorfa la vita degli individui, nonché unico strumento che sappia rendere in modo nitido e incisivo le sfumature del pensiero e dell’immaginazione.
Calvino invitava alla precisione cui avrebbe fatto seguito la disinvoltura, la capacità di elaborare discorsi complessi ed articolati senza incorrere in contraddizioni. Esaltava il valore dell’esattezza, contrapposto alla tendenza all’approssimazione che caratterizza la società contemporanea.
Concluso il ciclo di conferenze, emerse l’idea del lavoro dello scrittore come sfida alla degradazione della società con le armi specifiche della lingua.
Tale assunto, pur risalendo al 1984, si rivela attuale, anzi avveniristico, perché sembra che Calvino abbia predetto l’immaturità linguistica dei giovani, così legati ai fattismi “diciamo” e “praticamente” che si diffondono come la peste, ed esattamente come la peste, non fanno discriminazioni di classe o livello di istruzione. Dai giornalisti televisivi ai fisici del Cern di Ginevra, numerose anime sono affette da questo virus.
Il “diciamo” è socievole: si accompagna al “praticamente”, al “grossomodo”, al “quant’altro” e al “cioè”, ricorrente come un incubo.
Che “direbbe” Calvino di questo intercalare-pleonasmo, indice di una debolezza linguistica che ogni giorno lambisce nuovi individui e non li abbandona più.
E poi, lo “diciamo” sempre, ma ce ne accorgiamo?
Per prima cosa è presuntuoso usare il plurale se il soggetto parlante non si fa portavoce di un gruppo e poi, si tratta di un evidente segnale di perdita di controllo sul proprio linguaggio.
Ma il fenomeno peggiore cui mi è capitato di assistere è il contagio: i discenti ne fanno largo uso e i luminari ne seguono l’esempio.  
Dunque … non diciamo(lo) a Calvino.
Da “La Gazzetta del Mezzogiorno”, 25 giugno 2010, p. 22.

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