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venerdì 15 gennaio 2016

Dimmi la tecnica di bonifica e ti dirò se è amianto

     Nel lontano 1998 ho acquistato una casa e mi ci sono trasferita. Ho un balcone esterno con vista su una villa abbandonata ampia il doppio del mio grande comprensorio. È la villa del mistero che ha stregato grandi e piccini. Non v’è certezza sulla sua storia che forse si lega al binomio ricchezza-dissolutezza. A conferirle il vero fascino è la folta vegetazione che avvolge viali e fabbricati e che infuoca l’immaginazione di chi vuole ricostruirne le vicende. Di tanto in tanto i cancelli si aprono ai lavori di potatura degli alberi di confine, segno dell’esistenza di eredi che si assumono le proprie responsabilità. Di recente è accaduto qualcosa che sembrava stesse per togliere la villa dalla condizione di abbandono. Degli operai hanno iniziato a rimuovere le falde inclinate dei tetti delle dépendance presenti nella proprietà. Osservandone i lavori è stato possibile individuarne la tipologia edile: non una ristrutturazione, bensì interventi di bonifica… dall’asbesto. È l’altro nome dell’amianto. Ora ci corrono dei brividi gelidi lungo la schiena. Un tempo (fino agli anni ’80) era impiegato in edilizia per le coperture dei fabbricati, canne fumarie e tubature, ma poi si è scoperto che le fibre di amianto, se inspirate, causano gravi patologie polmonari tra cui il cancro. La legge n. 257 del 27.03.1992 ne ha vietato l’uso in Italia. Lo smantellamento dell’Eternit (cemento più fibre di amianto) è dunque necessario.
     Gli operai indossavano tute bianche e mascherine mentre estraevano, (in giornate con forti raffiche di vento, 6-11.2.2015) le lastre del tetto dopo averle ricoperte con una specie di spray rosso. Questa procedura prende il nome di incapsulamento e consiste nell’impregnare l’amianto con delle resine resistenti in modo da bloccare la dispersione delle fibre cancerogene. Gli incapsulanti hanno una colorazione rossastra che permette all’operatore di verificare l’omogeneità dell’applicazione.
     Uno di quei tetti presentava una spaccatura, forse causata dalla caduta di un ramo, già nel ’98. Il processo di deterioramento era già avvenuto e in tutti questi anni abbiamo respirato a pieni polmoni l’ossigeno di quegli alberi e polveri d’amianto. I lavori di smaltimento da poco ultimati derivano dal timore degli eredi di esser citati in giudizio? Il rischio di insorgenza di tumori non doveva costituire una spinta motivazionale ad assumersi un preciso impegno? Mi rivolgo agli eredi a nome dei vicini: non mi resta che esprimere gratitudine per averci donato le bellezze di tutto il verde gratuito e incontaminato che circonda la villa, ma noi lo abbiamo pagato al caro prezzo della salute dei nostri polmoni. Meno indugi in futuro!
     Da “La Gazzetta del Mezzogiorno”, 10 aprile 2015, p. 22.

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