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mercoledì 14 settembre 2016

Il calcio femminile non imiti il calcio maschile

La battuta di Belloli ci porta indietro di un paio di secoli
Ricordate l’infelice battuta del Ministro dell’Economia e delle Finanze Tommaso Padoa-Schioppa sui bamboccioni? Era il 2007 e fece un gran clamore mediatico che lese la sensibilità oltre che la dignità di una fascia generazionale dai 18 ai 34 anni. L’Italia è fatta di remake e nuovi adattamenti. Oggi tocca al Belloli sollevare cenere e lapilli. Felice Belloli in qualità di presidente della Lega Nazionale Dilettanti scarica una saetta contro il calcio femminile, apostrofandolo come il calcio delle «quattro lesbiche». Ed è subito polemica aspra. L’espressione lessicale poco colta investe l’intera società facendola retrocedere di un paio di secoli. Dal progresso al regresso in un nanosecondo. È una sferzata allo sport inteso come precursore di buona salute. È un richiamo alla discriminazione sessuale che vede il calcio appannaggio esclusivo degli uomini. Le origini delle pratiche sportive si perdono nella notte dei tempi. Erano una prerogativa maschile e di chi aveva il dono di una buona costituzione. Col tempo le cose sono cambiate e l’attività fisica ha accolto persone gracili, donne, bambini e disabili perché essa ha il pregio di rinvigorire il corpo e lo spirito.
Silvana Calabrese Blog La scorribanda legale Calcio in rosa
Analizzando il contemporaneo è innegabile l’affetto profondo che ci lega esclusivamente al calcio maschile i cui campionati ci radunano in poltrona o negli stadi. Per godere di maggiore rispetto il calcio in rosa dovrebbe imporsi e proporsi in maniera diversa. Alla società italiana non serve un doppione calcistico. Le squadre di calcio femminile devono mostrare a un’intera nazione il loro carattere di unicità divenendo un esempio di civiltà. In campo non si sputa e le risse con le giocatrici avversarie o con l’arbitro vanno evitate, lo fanno già gli uomini! Pierre de Coubertin (1863-1937), pedagogista, storico francese e fondatore dei moderni giochi olimpici pronunciò una massima «L’importante non è vincere ma partecipare». Intendeva dire che è fondamentale impegnarsi a fondo e disputare un buon incontro, ma con l’obiettivo di divertirsi e non con l’impulso di annientare l’avversario. Vincere è indubbiamente gratificante, ma non rappresenta lo scopo. È richiesta moderazione e umiltà nelle esaltazioni così come nelle sconfitte.
Il calcio femminile non è come lo si vuole fare apparire nelle pagine di cronaca sportiva, in cui si dimostra maturità nella sconfitta e sobrietà nella vittoria. Educazione, rispetto per il prossimo, diplomazia, sana aggregazione, accettazione serena della sconfitta o della retrocessione sono i cardini sui quali edificare il calcio in rosa affinché si sviluppi in parallelo rispetto a quello maschile, ma senza imitarlo. 
Da “La Gazzetta del Mezzogiorno”, 3 giugno 2015, p. 24.

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